La Sardegna, terra antichissima – tra le più antiche del continente europeo -, come molte regioni d’Italia e del mondo può vantare la propria unicità e originalità. E porta però in se, dettaglio decisamente meno diffuso, la condizione di essere un’isola.
Terra di centenari e culla internazionale della longevità, la nostra isola è, da sempre, una terra ampiamente desiderata per vacanze, stile di vita e “buon retiro”, gode di una particolare posizione nel bacino del Mediterraneo che le consente di essere moderna e attuale, inserita in un contesto attivo e sottoposta a tutti i movimenti relativi alla globalizzazione.
La riflessione continua e và avanti fino a concretizzarsi in un pensiero: gli isolani –quale che sia l’isola in questione– e in particolare i “nativi isolani”sono diversi dagli altri, da quelli della “terra ferma”, del “continente”. Non migliori o peggiori (gravissimo errore stilare graduatorie in merito) ma diversi, profondamente diversi.
Questo isolamento fisico, logistico, sensoriale permea la vita di tutti sull’isola e lo fa da millenni; rappresenta la più classica situazione di rovescio della medaglia: se da una parte siamo isolati dalle modernità e dai vantaggi della continuità territoriale, dall’altra siamo protetti dalle variazioni che velocemente si propagano sulla terraferma.
Chi la abita, chi la vive e la osserva con consapevolezza, vi riconosce anche una regione vittima di mire speculative, devastata dalle servitù militari e da investitori industriali senza scrupoli, che viaggiano in ogni dove inseguendo facili guadagni.
L’isolamento fisico, logistico e sensoriale che permea da millenni la vita di tutti noi rappresenta la più classica situazione di rovescio della medaglia: se da una parte siamo (o siamo stati) isolati dalle modernità e dai vantaggi della continuità territoriale, dall’altra siamo stati protetti da variazioni e mutamenti che velocemente si propagano sulla terraferma.
Per chi vive in Sardegna, o vive nella condizione di isolano, è facile notare come ci sia (ci sia stato) un gap temporale su questo territorio che – almeno prima dell’imponente spinta della globalizzazione – ha rallentato di uno, due anni l’arrivo delle novità buone così come delle crisi.
Negli anni ho conosciuto davvero tante persone e tante situazioni diverse, girato per e attraverso la nostra Isola in lungo e largo diventando a volte attore a volte testimone di situazioni, eventi, circostanze estremamente eterogenee. E’ rimettendo assieme i fili di questi ricordi ed esperienze che si fà largo questa consapevolezza questo concetto che ho chiamato “ISOLITUDINE”. Il limite del mare davanti a noi stessi con la sua cintura, sorta di “mura” invalicabili, permea dalla notte dei tempi il nostro inconscio, e anche quello collettivo. Come il liquido amniotico che contemporaneamente nutre e consente la vita di un feto, piccola ed esclusiva isola dell’universo femminino.
Le cellule del nostro corpo del nostro cervello e più ancora della nostra Anima analizzano in maniera assolutamente inconsapevole che abbastanza velocemente arrivi lì, al confine d’acqua… e allora devi prendere delle decisioni, ci devi fare i conti. Fai un giro, cambi strada, allunghi il tragitto ma poi…arrivi di nuovo al punto: acqua, mare, isola, isolamento, solitudine.
Ho realizzato che a causa di ISOLITUDINE ci siamo non di rado percepiti inferiori, retrogradi, non sufficientemente sviluppati, non autonomi e bisognosi, raramente all’altezza di “quelli del continente”. E qualcosa di vero c’è nel senso che la condizione logistica e strutturale di un’isola porta certamente ad alcune mancanze e a difficoltà varie ma quello che a me preme indagare, ciò che mi affascina, è il sentire profondo e inconscio di questa condizione che ho definito diversa e originale rispetto a una “normalità” vigente sulla terraferma.
Mi piacerebbe che ci si soffermasse sugli aspetti positivi di questa condizione, sul buono che ne deriva, a come spesso si risponda creativamente e con successo a questa consapevolezza. O forse no, a come altre volte semplicemente si subisce.
Il Mare. Linea di confine a carattere variabile
Ricordo con un sorriso un adagio che spesso ci veniva rivolto (a me e ai miei compagni durante gli anni di ricerca personale) da un importante maestro: Norberto Silva Itza psicoterapeuta e grande poeta e artista Uruguaiano che amava profondamente la nostra terra, che quando ogni tanto ci si ”impantanava” in una difficoltà soleva dire – con un che di rimproverante – che noi Sardi applicavamo la formula ammantata di fatalità : “vabbè, ma alla fine per mal che vada c’è il mare” (e ognuno la metta come vuole o sa).