Volevo fare lo scultore

Nella leggerezza ironica con cui Marco Ceraglia progetta questa serie di lavori si nasconde una passione ambiziosa e una consumata maestria. Nella vita Marco Ceraglia fa il fotografo, un professionista di quelli che l’esperienza e la cultura del mestiere hanno reso abile e perfezionista, attento indagatore della realtà che il suo obbiettivo può ricreare in una nuova esistenza e preservare dallo scorrere del tempo.

Della realtà, e della fotografia, Marco Ceraglia ha misurato infinite possibilità: di entrambe ha fatto il luogo di desideri, esercizio di pazienza, volontà incrollabile a carpire segreti celati dietro le cose, anche alle più infinitesimali. Ha indirizzato così la sua passione per la natura verso un’attività di singolare raccoglitore di rami, arbusti, relitti di piante sradicate, rinsecchite o contorte. In quei corpi abbandonati dalla natura stessa ha intravisto qualcosa che resiste all’assedio dell’inconsistenza, alla labilità delle cose e in quella forma di sofferenza del creato ha letto un mondo in procinto di franare. Con cura ne ha fatto un archivio di memorie mentre scopriva lentamente la loro intima bellezza, il carattere duttile e mutevole del loro essere, la forma evocativa che ne accentuava il potere di suggestione. Si è trovato a comporre insiemi di elementi di varia grandezza e consistenza proponendosi ironicamente come scultore. Sfidando le leggi di gravità e pesantezza, gli ingranaggi appena inventati si sono trasformati in strutture plastiche organiche, animali o esseri fantastici in stabile disequilibrio. Le composizioni di sorprendente imprevedibilità sono nate, dunque, non da un progetto a priori ma dal farsi stesso dell’opera che, ridefinendo continuamente i limiti della propria autonomia, mostra un innumerevole repertorio di possibilità. L’ordine statico svela, in ogni caso, la precarietà delle forme e, al contempo, innesta la riflessione sull’insuperabile conflitto tra ordine e disordine, caso e necessità. L’artificio di dissonante armonia così ideato non risulta però fine a sé stesso ma si lega a quell’altro raffinato artificio che è la fotografia. Soprattutto se a usarlo è Marco Ceraglia. Se non ci trovassimo di fronte a un’indiscutibile padronanza del linguaggio fotografico il gioco di seduzione si arresterebbe lì dove le forme assemblate sollecitano i sensi e la memoria, ma la macchina fotografica compie un’operazione di più vasta complessità e ci spinge nei meandri di una pratica fuori dalla portata comune. Sorprese nella luce, immerse in una dimensione atemporale, avvolte nel vuoto di ombre e sofisticati passaggi chiaroscurali, le composizioni naturalistiche si trasformano in costruzioni irreali che oscillano tra il manifestarsi tangibile della forma e l’apparenza astratta della magia luministica. Una poetica del sublime adattata ad una natura minimale, ad una romantica prospettiva di salvezza dell’ambiente. Così Marco Ceraglia mette in atto un doppio processo: in veste di sciamano sogna una società in armonia con la natura e dietro l’obbiettivo ribadisce la fiducia nella capacità metamorfica del processo creativo.

Mariolina Cosseddu